Un tentativo, artistico, di conferire dignità alla periferia industriale, alle aree suburbane vicine alla fabbrica. E’ il territorio intorno all’Ilva di Taranto il soggetto della ricerca fotografica di Vito Leone. 54 anni, tarantino, Leone ha scelto di fotografare le aree adiacenti all’industria siderurgica. Nei suoi scatti, ci sono i paesaggi urbani dei quartieri Tamburi, Paolo VI, Porta Napoli di Taranto, ma anche zone retro industriali oggi abbandonate, quasi ‘archeologia’ dei decenni trascorsi, caratterizzati da una produzione massiccia e invasiva. L’occhio del fotografo, ‘vicino’ a questi ambienti, perché familiari, cerca di trasformare la bruttezza e la brutalità degli stessi in bellezza. E’ un lavoro fotografico che corre su un doppio binario. Il primo, oggettivo, è quello delle linee e delle forme, del ‘senso geometrico’ del paesaggio, caro alla corrente minimalista; l’altro, soggettivo, è quello filtrato dall’occhio umano, che in quegli scorci vede, pur nella loro desolazione, umanità e dignità. Una pietas che permette di caricare di vita e di pathos immagini che, altrimenti, sarebbero fotografie di morte.
Lo studio di Vito Leone parte dal minimalismo degli anni ’70 e giunge al modo di fotografare i paesaggi urbani ed industriali che fu di Basilico, della scuola tedesca dei Becher, di Baltz e Robert Adams. Un tipo di fotografia apparentemente fredda, a volte priva della presenza umana, di cui si percepisce solo il passaggio o la presenza, il ‘respiro’. Sono i non-luoghi, secondo l’accezione dell’antropologo Marc Augé, i temi portanti di questa fotografia. Agli stessi, la fotografia di Vito Leone cerca di conferire dignità e bellezza, anche dove e quando questo non è evidente. Le periferie, le stazioni, gli aeroporti, le strade e gli spazi di passaggio sono non-luoghi, e – al contempo, luoghi comuni, universali, topoi riconoscibili a tutti, come se il mondo fosse un’unica grande città. La struttura architettonica, così, perde il suo valore d’uso quotidiano e diventa metafora, simbolo, linea, essenza: l’idea nella mente dell’architetto, la griglia del linguaggio architettonico, disegnata e proiettata nello spazio, che è catturata dalla fotografia. Il risultato è uno studio comparato sulle forme geometriche, alla ricerca di una “grammatica” dello spazio. Un processo di sottrazione del segno che si ricompone nella semplicità dell’immagine, la quale, alleggerita dalle ridondanze, si assolutizza in linee e colore.